IBN BATTUTA NEL PAESE DEI NERI

Un giorno di giugno del 1325, a Tangeri, Marocco, un ventunenne di buona famiglia iniziava il viaggio per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca, che ogni buon musulmano deve fare almeno una volta della vita. Nè lui nè la sua famiglia sapevano che stava avendo inizio uno dei viaggi più lunghi della storia. Cosi’ profetizzerà uno shayk che Ibn Battuta incontra in Egitto:

“farai il pellegrinaggio e renderai visita alla tomba del Profeta -disse-. Percorrerai lo Yemen, l’Iraq, il paese dei Turchi e l’India, dove rimarrai a lungo e incontrerai mio fratello Dilshad al-Hindi che ti trarrà d’impaccio quando ti ritroverai in una situazione disperata”

Il suo periplo si snoda in largo, dal Marocco all’attuale Taiwan; in lungo, dalle steppe della Russia meridionale alle sponde del Niger. Ibn Battuta percorrerà il Maghreb, l’Egitto, la Siria, la Persia, la Penisola araba. Li’ compie il pellegrinaggio prima di recarsi nello Yemen, da dove si imbarcherà per le coste somale. Si spingerà a sud fino all’attuale Tanzania, prima di recarsi in Asia Minore e successivamente nell’Asia centrale. Arriva in India, dove passa diversi anni; poi visita le Maldive, dove sarà governatore; poi Ceylon e il Bengala. In forse, secondo gli studiosi, la sua tappa in Cina, da dove ricomincia il lungo viaggio verso casa. Non vi si fermerà a lungo, perché andrà ancora nel sultanato andaluso, nel sud della Spagna. Ultima tappa ma non meno importante, nell’impero del Mali, in Africa occidentale.

Il viaggio è una componente fondamentale della cultura araba dei primi secoli: si viaggiava spesso come pellegrini e mercanti. Senza contare la componente nomade fondamentale per chi viveva nel deserto, sia nella Penisola Araba che nel Sahara.

Abu ‘Abd Allah Muhammad ibn Battuta è un Lawata, un gruppo nomade imazighen che potrebbe aver dato il nome alla Libia. È un conoscitore del diritto islamico (fiqh), e fa parte della scuola giuridica malikita, una delle quattro principali scuole (madhab) che nel corso dei secoli si sono affermate nell’ecumene islamica. Uno dei problemi principali è individuare quali strumenti usare per interpretare e aderire alla legge islamica (sharia): se usare l’analogia, solo il Corano o anche la tradizione (sunna) successiva, su quali dotti (ulema) fare più affidamento. Il madhab hanafita, quello maggioritario, fa largo ricorso all’analogia. Il madhab malikita invece da la priorità alla tradizione relativa al periodo medinese del Profeta Muhammad, nonché alla sua comunità di dotti.

L’Islam, nel XIV secolo, era una patria per i musulmani. Ibn Battuta parti’ con poco denaro, e per tutto il viaggio si appoggerà alla larga rete di ospitalità a disposizione dei musulmani. Ovunque vada c’è sempre una zawiya, una sorta di monastero per i viandanti. In qualità di dotto, incontrerà in ogni città il locale qadi, il giudice del locale tribunale, che molto spesso gli aprirà le porte della sua casa. Non è raro che sia il sultano stesso a ospitarlo a corte, e alla sua ripartenza gli viene sempre donato del denaro, delle provviste, degli abiti, dei cavalli, dei cammelli, degli schiavi, tanto che finirà per accumulare una discreta fortuna. A volte maestro, a volte talib (studente), Ibn Battuta insegna e impara: talvolta indignato dalla scarsa conoscenza religiosa di qualcuno, altre in cerca della baraka (benedizione, favore divino) accordatagli dallo shayk di una qualche confraternita sufi, dalla tomba di qualche santo o nei luoghi profetici della Mecca e Medina. Le conoscenze di Ibn Battuta non dovevano essere molto estese, ma alcune dinastie e sultanati che visitò ne avevano ancora meno. Come nel caso dei Khan dell’Orda d’Oro, dinastia turco-mongola islamizzata da poco: Ibn Battuta soggiornò alla corte del suo sovrano, Ozbeg (1282-1341):

“il professore si dette al posto d’onore, io mi sedetti alla sua sinistra e il sultano alla sua destra – il che dimostra il prestigio di cui godono i giuristi presso i turchi – poi quest’ultimo mi chiese di scrivergli qualche detto del Profeta”

La funzione degli ulema, dei giuristi, degli shayk che viaggiavano era questa: le dinastie convertite da poco non sapevano nulla, e servivano uomini formati nei “centri”, (Damasco, Baghdad, il Cairo, la Mecca) per garantire l’unità culturale della umma.

Ibn Battuta non era l’unico a viaggiare e a spostarsi dal luogo di origine. La umma islamica era un circuito fluido di merci e persone, che nella comune cornice della dar al-Islam (la dimora dell’Islam) permetteva a popoli, culture e conoscenze un interscambio continuo. Persiani a Il Cairo, turchi a Damasco, indiani a Shiraz, siriani in Transoxiana plasmarono per sempre il volto dell’Asia, del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale, occidentale, orientale.

Il quadro storico, durante il suo viaggio, era quello che risultava dopo il trauma dell’invasione dei Mongoli, nel 1258. A differenza delle crociate cristiane, poco o nulla sentire in ambito islamico, la comparsa della cavalleria mongola fu causa di spavento e terrore leggendari. Ibn Battuta lo nomina diverse volte:

“ Un tempo (Bukhara) la città era la capitale della Transoxiana, ma poi fu distrutta da quel maledetto di Gengis Khan, il tataro antenato dei re dell’Iraq”

Gengis Khan (1167-1227) unificò i nomadi abitanti delle steppe mongoliche e si lanciò alla conquista dei territori cinesi e occidentali. Il suo esercito distrusse Mosca, Kiev, varie città dell’est europeo. I Mongoli arrivarono in Persia, in Anatolia e distrussero Baghdad (1258).

Dopo l’invasione, in Asia e Medio Oriente si formarono varie dinastie e sultanati di orgine turco-mongola, che si convertirono all’Islam almeno formalmente. Tranne in Egitto, dove l’avanzata mongola sarà fermata dalla nascente dinastia dei Mamelucchi (1250-1517), subentrati agli Ayyubidi, di cui erano le guardie personali. I mamluk erano casate di schiavi turchi provenienti dalle steppe centroasiatiche, una casta militare a servizio di questo o quel sultano, che finiranno per prendere il potere dopo le vittorie militari contro i Mongoli e i crociati europei.

Nel Maghreb, è al potere la dinastia dei Marinidi (1196-1549), primi vassalli degli Almohadi, gli “Unitaristi”, unificatori dell’Africa settentrionale, che mantengono la struttura dello stato almohade.

Nell’Iraq e nella Persia invece si instaurò una dinastia di origine mongola, islamizzata, gli Ilkhanidi (1256-1353); stessa origine hanno i Khan dell’Orda d’Oro (XIII-XV secolo), che regnavano sull’Asia centrale e la Russia meridionale fino all’India.

Qui i tatari non arrivarono: l’India fu invasa da afghani turchizzati, di cultura persiana, mentre la popolazione inizialmente resta indu’: Ibn Battuta vi troverà il sultanato di Delhi, con la dinastia Tughluq (1320-1414).

Rimaneva un pezzo della dar al-Islam, quello più a sud. L’impero del Mali, che allora dominava al-Sudan (lett., il paese dei neri).

I malinke o mande erano un popolo di contadini che abitavano territori dove sorgevano giacimenti auriferi, tra l’alto corso dei fiumi Senegal e Niger. Il Mali era inizialmente un regno modesto, dominato dalle confraternite di cacciatori abili negli incantesimi. I suoi clan erano i Traorè, i Kamara, i Konate, i Keita. Questi ultimi saranno i sovrani del futuro regno. Il re (mansa) era il portavoce del gran consiglio dei clan, imponeva le tasse e non da ultimo aveva il monopolio delle pepite d’oro. Già nell’XI secolo al-Bakri (1014-1094), geografo arabo, accenna alla conversione del re del “Mallel”, avvenuta dopo una preghiera con un marabutto lamtuna, che pose fine a una lunga siccità. Uno dei primi nomi di cui si ha notizia è Nare Fa Maghan (1218-1230), che sposò Sogolon Konte detta Kediugu, “la brutta”. Dalla coppia nacque un bambino storpio fino all’età di sette anni: Sun Dyata Keita, il “Leone del Mali”.

Sun Dyata

Nel mentre, il sovrano del vicino regno del Soso, Sumanguru, conquistò il Mali massacrando gli eredi al trono, tranne l’infermo Sun Dyata. Ma fu la prepotenza di Sumanguru a farlo alzare in piedi sullo scettro del padre. Sua madre e lo stregone improvvisarono allora un canto: “Leone, prendi la faretra! Leone, prendi l’arco del Manding!”.

Tra sotterfugi, intrighi, incantesimi e battaglie, Sun Dyata vinse la guerra contro Sumanguru a Kirina. L’impero del Mali iniziava la sua prosperosa storia.

Al giorno d’oggi, uno dei suoi sovrani più famosi fuori dal Mali fu mansa Musa (1312-1332). Presumibilmente ancora oggi l’uomo più ricco di tutti i tempi, effettò il pellegrinaggio nel 1324, e la quantità d’oro che distribui’ a il Cairo ne fece scendere il valore per diversi anni. Pare anche che vi furono diversi cairoti che si approfittarono della generosità del sovrano; ma da persona educata qual’era, si limitò a regalare al sultano un manuale sulla buona creanza.

La sua fama e le voci che circolavano sulla sua immensa ricchezza raggiunsero l’Europa. La carta di Angelo Ducert (1339) indica il paese delle miniere d’oro, retto dal “rex Melli”. E’ dall’Africa occidentale infatti che proveniva la quasi totalità dell’oro utilizzato a quei tempi in Europa. Ormai nell’orbita della dar al-Islam, il Mali si apprestava a diventare l’ultima meta del lungo viaggio di Ibn Battuta.

Il motivo del viaggio in Mali è dibattuto. La prima città in cui si fermò fu Sigilmasa, punto di partenza delle carovane marocchine che andavano a sud attraverso il Sahara. Fu a una di queste carovane che Ibn Battuta si aggregò, nel 1352; dopo una ventina di giorni arrivarono alle saline di Taghaza, ove vivevano solo gli schiavi dei Massufa, impiegati nella raccolta del sale. I Massufa facevano parte del gruppo imazighen dei Sanhaja e spesso avevano il ruolo di takshif: colui che precede le carovane con delle lettere e avvisa gli abitanti di andare loro incontro con acqua e provviste. Se il takshif muore, è probabile che muoia anche il resto della carovana.

Il sale era un bene prezioso per conservare il cibo, a sud del deserto; i mercanti lo compravano a Iwalatan, vicino Taghaza e lo rivendevano in Mali a tre, quattro volte tanto.

Da li’, inizia la traversata che fa una delle prime vittime, un membro del gruppo che si arrischia ad andare avanti:

“lo trovammo morto sotto un alberello di quelli che crescono nella sabbia: tutto vestito, aveva in mano una frusta, e si trovava a un solo miglio dall’acqua!”

Anche un viaggiatore consumato come Ibn Battuta temeva il Sahara, che doveva avere un certo numero di cadaveri. Un deserto temibile anche per i demoni che lo abitano:

“ci sono molti demoni che prendono di mira l’esploratore quando è solo e cercano di distrarlo in modo da fargli perdere l’orientamento e morire, perchè non ci sono strade visibili e nemmeno segnali, ma solo sabbie spazzate dal vento”

Arrivati a Iwalatan, la prima provincia del paese dei Neri, è stupefatto dall’altezzosità e dall’avarizia dei locali, dalla promiscuità sessuale e dalla mancanza di velo sulla testa delle donne.

Alla ripresa del viaggio incontra i primi baobab, prima di arrivare alla capitale dell’impero:

“lungo la strada crescono molti alberi secolari cosi’ grandi che uno solo di essi può fare ombra a un’intera carovana”

E’ incerta quale fosse la localizzazione della capitale del Mali, presumibilmente sul Niger, sul confine attuale tra Guinea e Mali. Qui Ibn Battuta fa la conoscenza del qadi e dei dotti locali. Allora il sovrano era Mansa Sulayman, in buoni rapporti con la dinastia marocchina dei Marinidi; è probabile Ibn Battuta sia stato inviato in Mali in quanto esperto di diritto islamico malikita.

L’impero si reggeva su un sistema politico elastico, sulla tolleranza religiosa, sulla sicurezza e la ricchezza:

“La sicurezza è totale e generale in tutto il paese; il sultano non perdona chiunque si renda colpevole di un’ingiustizia..Tanto il viaggiatore quanto il sedentario non devono temere i briganti, nè i ladri o i rapitori. I neri non confiscano i beni dei bianchi che vanno a morire nelle loro contrade, quand’anche di trattasse di tesori inestimabili; al contrario, li consegnano a un uomo di fiducia dei bianchi finchè gli aventi diritto non si presentano ne ne prendono possesso”

Nel lussuoso padiglione del re si tengono le affollate udienze, con centinaia di persone tra servi, soldati, giuristi e griot (bardi):

“I poeti, qui detti jula, si presentano dentro la sagoma di un shaqshaq fatta di piume e fornita di una maschera in legno con il becco rosso che sembra la testa del suddetto uccello. Si mettono davanti al sovrano conciati in questo modo ridicolo e declamano i loro versi. Le loro poesie hanno un tono esortativo e si rivolgono al sultano dicendo: su questo bambi su cui ora ti siedi, sedettero un tempo tal sovrano -che compi’ queste e quelle gesta- e il tal’altro- che fu attore di queste e quelle imprese. Fai dunque anche tu qualche opera buona che venga ricordata dopo di te!”

Abbondano gli strumenti e i finimenti d’oro e d’argento, nonché le usanze e i gesti sopravvissuti dopo la conversione all’Islam:

“per quanto riguarda le loro cattive usanze, vi è che le domestiche, le ancelle e le ragazze giovani si mostrano nude in pubblico senza nemmeno celare le pudenda”

Ripartito dalla capitale, Ibn Battuta visiterà ancora Timbuktu e Gao; nella città di Takadda, nel 1353, il sultano marinide lo richiamò definitivamente a Fes.

Il suo lungo viaggio era giunto a termine, dopo aver testimoniato dell’intero ecumene islamico nel XVI secolo, inconsapevole di aver appena consegnato alla storia una fonte inestimabile per la conoscenza del al- Sudan, il paese dei Neri.

La sua vita era fonte di stupore e ammirazione, tanto che il sultano gli chiese di dettare la sua rihla (cronaca araba di viaggio arricchito da descrizioni di luoghi e persone) al giovane andaluso al- Juzayy. Mentre si trovava in Persia, un eremita e asceta gli disse:

“Che Dio ti faccia ottenere quel che desideri in questo mondo e nell’adilà”. Grazie a Dio, quaggiù ho davvero avuto tutto quello che volevo – viaggiare per il mondo!- e rispetto a questo, per quanto ne so, ho ricevuto più di chiunque altro”

Bibliografia

Ibn Battuta, I Viaggi, Einaudi, Torino 2018

Joseph Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera, Ghibli, Milano, 2016

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