Nel 1988 veniva pubblicato L’Invenzione dell’Africa, un’opera in cui il filosofo congolese Valentin Yves Mudimbe ricostruisce le origini di quel composito insieme di saperi comunemente noto come africanismo. I primi resoconti degli esploratori, le monografie etnografiche missionarie, gli studi antropologici, le descrizioni delle “filosofie primitive” hanno inventato l’Africa: e lo hanno fatto attraverso griglie conoscitive già date altrove, in Europa.
Anche prima dell’avvento delle rotte commerciali atlantiche il continente africano era Altro. Pur facente parte dell’economia mondiale attraverso le rotte commerciali sahariane, che rifornivano di oro e merci le coste mediterranee e l’Europa, erano in pochi a superare il mare desertico. La scoperta delle Americhe e la stessa circumnavigazione dell’Africa cambiarono tutto. Gli europei, soprattutto portoghesi, scoprirono la costa occidentale, la foce del fiume Congo, entrarono in competizione con i potentati arabi sulla costa orientale. Fu un punto di non ritorno storico. Dalla tratta degli schiavi, che trasferi’ nelle Americhe e uccise milioni di africani, all’occupazione coloniale, intere società vennero travolte. Ricostruire la storia di una simile distruzione è compito a sé. Quel che interessa sottolineare è che agli africani non vennero imposti solo sistemi economici e politici estranei; ma venne loro imposta un’episteme, un ordine conoscitivo, una visione di sé stessi alienante, degradante, inferiorizzante. Fu in quel momento che l’Africa, eterno luogo comune, insieme di immagini e clichè venne alla luce. Da allora, popoli che fino a quel momento avevano una storia propria, una proprio modo di stare assieme e che spesso non si conoscevano, avrebbero avuto un destino comune: essere pensati e nominati da qualcun’altro. Il colonizzatore, il missionario, l’antropologo, anche il filosofo che dalla sua cattedra lontana non li avrebbe mai visti:
“per Africa in senso vero e proprio si deve intendere quel mondo privo di storia, chiuso, che è ancora del tutto prigioniero nello spirito naturale[…]l’Africa è rimasta chiusa al contatto con il resto del mondo, almeno fin dove risale la storia; è il paese dell’oro, concentrato dentro di sè, è il paese dell’infanzia, avvolto nel colore nero della notte al di qua del giorno, al di qua della storia cosciente di sè[….]l’africano non è ancora giunto alla distinzione fra se stesso, considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un’essenza assoluta, diversa e superiore all’essenza individuale. […]Il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e naturalezza. Se vogliamo farci di lui un’idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un’eco di umanità”
G.W. F. Hegel, Lezione sulla filosofia della storia, Laterza, Bari 2003
In Africa, secondo Hegel, non può darsi storia, perchè l’africano non è cosciente di vivere nella storia. Laggiù non vi è Stato, non vi è Legge: in fondo, “le relazioni circostanziate dei missionari confemano in pieno la nostra asserzione”.
Alla fine del secondo conflitto mondiale le colonie europee iniziano ad agitarsi, comprese quelle africane. Molte di loro agli inizi degli anni Sessanta ottengono l’indipendenza politica, tramite un passaggio di poteri incruento tra le vecchie istituzioni coloniali e i nuovi poteri emersi dalle lotte anticoloniali, o tramite le armi. Anche questa è storia à sé, lunga e articolata, che nei manuali di storia viene liquidata in un capitolo: una carrellata di avvenimenti, frettolosa, prima di tornare agli eventi e ai luoghi che contano davvero.
L’urgenza di decolonizzare le proprie menti si fece sentire molto presto. L’esigenza di decostruire il sapere su se stessi fatto da altri era particolarmente sentita. E’ a questo scopo che L’Invenzione dell’Africa è stato concepito. Vengono esaminati in dettaglio il discorso missionario, antropologico e filosofico sull’Africa, allo scopo di mostrare come questi saperi fossero funzionali all’assoggettamento del continente. L’antropologo e il missionario, infatti, hanno ricondotto sistemi di pensiero eteronegei, com’è naturale che fosse in un continente cosi’ vasto e diverso, entro categorie conoscitive del pensiero occidentale.
Il colonialismo ha dunque prodotto un corpus di conoscenze utile per lo sfruttamento dei possedimenti coloniali, una biblioteca coloniale. Si trattava di una struttura colonizzatrice, responsabile della produzione di società, culture ed esseri umani marginali. Le culture e le gnosi africane preesistenti ne sono risultate svilite, cancellate, denaturate.
Mudimbe non fa mistero di attingere alla riflessione di Focault: il suo libro è, in effetti, un archeologia dell’africanismo; vengono esaminate le sue condizioni di possibilità. Dal lato missionario è molto interessante l’esame che viene fatto dell’opera di Placide F. Tempels, missionario in Katanga dal 1933, autore di Filosofia Bantu. Il suo scopo era evangelizzare: come riuscirci al meglio? Conoscendo i nativi, la loro visione del mondo, la loro “filosofia”. Sarebbe stato possibile, cosi’, adattare meglio il messaggio evangelico per renderlo più efficace. Come radicare i valori cristiani su una base culturale bantu? Il sistema di pensiero esposto in Filosofia bantu è suggestivo e ha stimolato la curiosità di molti. Ma non vi è alcuna prova che attesti la verità di ciò che vi è scritto. Di più, secondo Tempels, l’ontologia bantu potrebbe essere una guida per tutte le ontologie dei “popoli primitivi” in generale. In effetti, vengono usati come sinonimi africano, bantu, primitivo, nativo, selvaggio. Come se descrivendo la “filosofia” di una piccola comunità del Congo belga le sue conclusioni possano essere valide per tutti.
Il discorso antropologico, dal canto suo, ha sempre vantato basi “scientifiche”, derivanti dall’osservazione dei popoli “sul campo”, quasi sempre senza conoscerne la lingua. Gli antropologi erano interessati al divario tra l’Europa e il continente nero, desideravano descrivere questa differenza e classificarla all’interno di una griglia tassonomica delle culture umane. Nulla, alla fine del XIX secolo, sfuggiva al furore classificatorio europeo. Le società osservate, si pensava, erano società prive di storia, incapaci di elaborare qualsivoglia dimensione temporale, immerse in un presente eterno, basata su “miti” posti al di fuori da qualsiasi orizzonte storico. Che la descrizione di queste società corrispondesse o meno alla realtà non era rilevante. Se i fatti non combaciavano con la teoria, tanto peggio per i fatti.
Sono passati molti anni e molte opere da quando Mudimbe decostruiva sapientemente i discorsi altrui sull’Africa, e gli studi postcoloniali si sono arricchiti di centinaia di contributi e di saperi. Il movimento letterario della Negritude, i socialismi e i nazionalismi africani, il panafricanesimo sono tra questi. Si tratta di movimenti e protagonisti che hanno, tra contraddizioni e battute d’arresto, fatto uscire gli africani da un discorso scritto e parlato dagli altri. Nel frattempo, l’Europa, di cui Frantz Fanon, ne I dannati della Terra, dice che “non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo ovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo”, si trova in piena crisi. Politica, economica, di senso. Una crisi che ha tra i suoi commentatori Achille Mbembe, filosofo camerunense cosmopolita.

In Emergere dalla lunga notte si avanza la tesi che lo Stato neoliberale odierno è una struttura solamente formale, la cui “l’espressione ultima della sovranità consiste nel potere e nella capacità di decidere di può viveve e chi deve morire”: una necropolitica. Basandosi sulle classificazioni di Carl Schmitt, si afferma che
“uno dei principi dello Stato moderno è l’uguaglianza giuridica di tutti gli Stati. Questa uguaglianza era soprattutto applicata al diritto di fare la guerra […]il secondo principio dell’ordine giuridico europeo riguardava la territorializzazione della sovranità dello Stato[…]Cosi, lo Jus Publicum assunse rapidamente la forma di una distinzione tra, da un lato, quelle parti del globo disponibili per l’appropriazione coloniale e, dall’altro, l’Europa stessa”
L’aggressione coloniale non era un’aggressione a uno Stato. Era uno stato di guerra permanente, uno stato d’eccezione:
“erano zone abitate da “selvaggi” che non avevano una forma di organizzazione statale e non avevano costruito un mondo umano[….]Nelle colonie, il diritto sovrano di uccidere non era soggetto a nessuna regolamentazione” A. Mbembe, Necropolitica
Ormai sono molti i lavori storici che hanno confutato l’idea che vi fossero vuoti di potere. Vi erano anzi formazioni statali in divenire, società stratificate, modi propri di gestione del politico. Il fatto è che gli europei non avevano intenzione di vederlo. Non c’era posto per queste forme di statualità nel futuro del mondo, che sarebbe stato prima distrutto poi plasmato a servizio dell’imperialismo capitalista occidentale.
Lo stato coloniale era anch’esso una necropolitica, e dentro di esso i corpi colonizzati erano il materiale su cui fondare la propria sovranità: asservendoli, uccidendoli, facendone materia di ingegneria politica. Non è difficile vedere che anche gli stati europei di oggi sono necropolitiche. Dispositivi legislativi e narrazioni giornalistiche decidono chi va ucciso e lasciato morire, quali morti contano e quali no. Il sacrificio di corpi nel Mediterraneo, al confini del Messico con gli Usa, davanti ai fili spinati in Europa Orientale, accrescono il senso di sicurezza di popoli stanchi e impauriti e tiene assieme la sovranità di Stati sempre meno credibili. Viene in mente la biopolitica di Focault, ma a tinte molto più fosche.
A tutto ciò occorre contrapporre una visione diversa, occorre immaginare una direzione che porti lontano dalle politiche della morte. Secondo Mbembe, è la dischiusura il passo fondamentale:
“L’universalità del nome “Negro” dobbiamo cercarla non dal lato della ripetizione ma da quello della differenza radicale senza la quale la dischiusura del mondo è impossibile. E’ nel nome di questa differenza radicale che dobbiamo immaginare daccapo “il Negro”come la figura di colui che è in cammino, che fa esperienza della lacerazione e dell’estraneità”
Più precisamente,
“la dischiusura consiste esattamente nel fatto di andare incontro al mondo essendo capaci di abbracciare l’indistinguibile tessuto delle appartenenze che formano la nostra identità e l’intreccio delle reti che permettono a ogni identità di estendersi necessariamente in un rapporto all’Altro; un Altro che è sempre, immediatamente, li’. La vera e propria dischiusura del mondo è dunque l’incontro con la sua totalità”
Uscire da sé, dunque. “Uscire dalla notte dell’identità”, in un momento in cui le identità, purtroppo per noi, rinascono, riprendono vigore, si sbranano in tutti i luoghi del mondo. Cosi’ facendo,
“la coscienza del mondo nasce dall’attualizzazione di ciò che era presente in me, ma attraverso l’incontro che ho avuto con la vita di altri, la mia responsabilità nei confronti della vita di altri e dei mondi apparentemente lontani e, soprattutto, delle persone con cui non ho apparentemente alcun legame: gli intrusi”
Le innumerevoli diaspore africane nel mondo, e le diaspore del mondo in Africa sono il luogo ideale per questa dischiusura, la base dell’afropolitismo. Non si tratta di universalismo, che tende a ignorare le diversità. E neanche di costruire una comunità, concetto e prassi che implicano la chiusura a ciò che viene dall’esterno. L’Africa è un laboratorio ideale, perché frammentata, dislocata, diffratta in ogni senso immaginabile. Spaziale, con le sue diaspore. Culturale, essendo stata un laboratorio di intrecci culturali dall’inizio della sua storia, creatrice e creazione del resto del mondo.
“La presenza del qui e dell’altrove nel qui e viceversa questa relativizzaione delle radici e delle appartenenze primarie e questo modo di abbracciare con piena congnizione di causa, lo strano, lo straniero e il lontano, questa capacità di riconoscere il proprio volto in quello dello straniero e di dare valore alle tracce del lontano in cio che è prossimo…è afropolitismo”
La nazione, la razza e tutti i modi di declinazione delle identità non hanno alcun posto in un progetto politico del genere. I nazionalismi africani hanno in parte fallito. Il panafricanismo basato su una solidarietà “nera” e sulla vendetta non può funzionare, perché incapace di dislocarsi e distaccarsi dall’identità:
“la sfida più grande per la nostra epoca è quella della rifondazione del pensiero critico, cioè di un pensiero che pensa il suo esterno, cosciente dei limiti della propria singolarità, nel circuito che sempre ci collega a un Altrove”
E’ probabilmente questa l’uscita definitiva dall’ordine del discorso occidentale che Valentin Mudimbe si augurava. E forse anche aria nuova per una vecchia e stanca Europa.
Bibliografia
Valentin Yves Mudimbe, L’invenzione dell’Africa, Meltemi, 2018
Achille Mbembe, Emergere dalla lunga notte, Meltemi, 2018
Achille Mbembe, Necropolitica, Ombre Corte, 2016
Rispondi