“È importante riconoscere lo stretto legame tra ambiente, salute, economia, cultura e diritti nella nostra società. La Terra è un’entità vivente e che respira proprio come i nostri corpi. La nostra sopravvivenza dipende totalmente dal vivere nella natura, non separatamente da essa. Nell’affrontare il cambiamento climatico, dobbiamo smettere di concentrarci esclusivamente sul linguaggio dell’economia, e aggiungere alla distruzione della nostra atmosfera, della nostra terra, delle nostre acque e della fauna selvatica l’impatto sulla vita e sui diritti umani. Il cambiamento climatico riguarda soprattutto la morale e l’etica. Dobbiamo smetterla di dividercu e iniziare a imparare gli uni dagli altri. Abbiamo tutti bisogno di saperne di più sulla conoscenza, i valori e i principi indigeni e su come possono essere impiegati nei processi decisionali a livello regionale, nazionale o internazionale. Dobbiamo reinventarci e iniziare a costruire il nostro futuro collettivo con rispetto e riverenza per il mondo indigeno, piuttosto che limitarci a replicare i valori di una società occidentale dominante”
Sheila (Siila) Watt-Cloutier, attivista e scrittrice Inuit

Circa un anno fa, nel gennaio del 2020, l’ONU ha sentenziato che i rifugiati climatici – coloro che a causa dei cambiamenti del clima e della degradazione ambientale sono costretti a lasciare il luogo in cui vivono – non possono essere rimpatriati. Un parere non vincolante, che inciderà poco o nulla sulle future politiche occidentali in merito, ma che riflette una sensazione diffusa: il clima sta cambiando e anche se i paesi più ricchi non ne subiscono ancora le conseguenze più pesanti, qualcuno ne sta facendo le spese. Quelli che in passato si sono visti imporre questo modello economico puramente estrattivo e distruttivo, e che al momento hanno la minore impronta ecologica possibile.
Il paradosso non finisce qui. Se in Africa orientale migliaia di masai hanno dovuto sloggiare dalla loro terra per far posto a benestanti desiderosi di fare safari, a tutt’oggi gli abitanti della foresta amazzonica sono mandati via dalla foresta a vantaggio di disboscatori e allevatori che li spingono fuori dalle loro terre.
Ma è anche la conservazione ambientale cosi’ com’è concepita oggi a minacciare gli abitanti di ecosistemi che si dice di voler proteggere. La mentalità coloniale è un atteggiamento pervasivo e totalizzante: si adatta a ogni campo della vita politica e sociale e compare ogni volta che ci si rapporta al colonizzato. Il che significa anche che la maniera occidentale di affrontare il cambiamento climatico viene considerata l’unica possibile, mentre il modo di vita indigeno in molte aree del pianeta, che per inciso ha conservato e rispettato quell’ambiente per migliaia di anni, non è degno di sopravvivere. A questa mentalità si attengono non solo le grandi multinazionali e i governi occidentali, ma anche le più grandi e accreditate agenzie ambientaliste, come il WWF.
I combustibili fossili e la deforestazione sono una delle maggiori voci responsabili del surriscaldamento globale. Per rispondervi è stato ideato il REDD+ (Riduzione delle Emissioni da Deforestazione e Degrado delle foreste”), a cui fa ricorso anche il WWF. Con questo sistema i maggiori responsabili dell’aumento di diossido di carbonio “compensano” le loro emissioni finanziando progetti di conservazione. E’ lecito chiedersi se sia una strategia vincente a lungo termine, soprattutto quando tutto questo va a danneggiare gli abitanti degli ecosistemi più minacciati: coloro che conoscono quell’ambiente più e meglio di chiunque altro. Accusati di bracconaggio se cacciano per cibo, minacciati, sfrattati e destinati a un futuro di povertà e dipendenza economica.
Anche i parchi nazionali sono alla base di aperte violazioni dei diritti degli indigeni, dato che non è consentito vivere al loro interno. Sono ormai molte le inchieste di Survival International e non solo che documentano gli sfratti violenti, le minacce e gli abusi ai danni degli abitanti delle aree prossime a diventare protette.
Questi metodi per proteggere l’ambiente, ispirati a una visione del mondo in cui ci sono vite sacrificabili, hanno alla base un’inaccettabile sopruso e sono anche destinati al fallimento. Questo perché i maggiori esperti di conservazione ambientale sono gli indigeni, e ne sono ogni giorno più consapevoli.
Lasciarli fuori dall’enorme sfida dei cambiamenti climatici significa perderla, perché sarebbe solo l’ennesimo atto della guerra al vivente, che per il pensatore Achille Mbembe , è parte fondamentale delle politiche della morte che caratterizzano questa fase storica tardocapitalista. Il vivente è interconesso; è la prima cosa che si impara nello studio dell’ecologia, ed è l’evidenza alla base dell’organizzazione sociale, economica, spirituale indigena.
Landback: ridateci la nostra terra
Gli Stati Uniti del XIX secolo inaugurarono il furto della terra ai danni dei nativi per gli usi più disparati, tra cui quello di farne dei parchi naturali. Quelle stesse terre che ora ispirano i movimenti per la loro riappropriazione, un segmento molto importante dell’ampio attivismo ambientale statunitense. I nativi americani sono in prima linea contro la costruzione di oleodotti che minacciano le loro acque, arrivando a volte a fermare i lavori.
Cosi’ descrive il movimento del landback Nick Tilsen, Oglala Lakota, membro del collettivo NDN:
“Quello che stiamo dicendo è, non create posti per noi nelle vostre strutture di supremazia bianca. Noi vogliamo creare i nostri sistemi, basati sui valori indigeni. Per noi, ottenere giustizia ed equità razziale per gli indigeni in questo paese, significa includere il landback. Non è una scelta. È una richiesta”
Riprendersi le terre non è vendetta o ripicca. E’ sostituire il sistema capitalista, interessato a estrarre dalla natura solo valore e denaro, con il sistema indigeno, per il quale l’ambiente in cui si vive è fonte di cibo, salute e nutrimento per lo spirito. Terra e acqua non sono cose nella mentalità nativa americana; sono processi di un sistema interconnesso e interdipendente in cui l’umanità non si pone in modo parassitario, ma è impegnata nell’attività “prendersi cura del selvaggio”, tending the wild, affinché il selvaggio salvaguardi l’umanità stessa.
Questa profonda connessione tra tutti gli aspetti della vita è cosi’ descritta da un membro degli eschimesi Yup’Ik:
“Noi sentivamo che tutte le cose erano come noi, i piccoli animali come il topo e le cose come il legno erano per noi come persone, dotate di consapevolezza. Il legno è grato alla persona che lo usa e la persona che lo usa è grata al legno per il fatto che si presta a essere usato”
Adottare strategie native nella conservazione ambientale si è dimostrato vincente, come nel caso della riserva naturale di Bears Ears, nello Utah, voluta da Barack Obama e ridotta da Donald Trump dell’85%. E’ presto per sapere cosa deciderà in merito l’attuale amministrazione Biden, ma quel che è certo è che la partecipazione di varie First Nations come i Navajo, gli Hopi egli Apache, con voce in capitolo nella sua gestione, ne ha assicurato il successo.

Si tratta della Traditional Ecological Knowledge (TEK): una lunga serie di strategie, modi d’usufrutto come caccia, pesca e raccolta che i nativi hanno sviluppato nel corso dei secoli nell’enorme e variegato ambiente nordamericano. Dalla salvaguardia del salmone selvaggio nello Yurok in Alaska, all’agricoltura negli ambienti aridi dei deserti sudoccidentali adottata dai Pueblo, alla raccolta del mais verde nel sudest da parte dei Muskogee. Pratiche che assicurano non solo la salvaguardia ambientale, ma anche la sovranità alimentare e il rispetto della biodiversità.
L’urgenza della degradazione ambientale necessita di un cambiamento di paradigma. L’approccio olistico, oltre ad essere efficace nel salvaguardare la vita nel suo complesso, ripara alle passate ingiustizie storiche e sarebbe un passo avanti verso il superamento della pesante eredità coloniale e di un modo di vita economico e sociale che sta mettendo a rischio la vita di tutti.
FONTI
https://www.survivalinternational.org/
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