SERIGNE TOUBA E LA RESISTENZA PASSIVA

“Prima o poi l’occupazione un giorno finirà, e la terra continuerà a fornire ricchezza di cui potremo godere liberamente. Ma se, sfortunatamente, l’invasore fosse riuscito a colonizzare le nostre menti e i nostri cuori, allora noi stessi ci precipiteremo a casa sua, anche dopo la sua partenza, per portargli la nostra ricchezza su un piatto d’argento”

(Cheikh Ahmadou Bamba)

INTRODUZIONE

L’Islam è la cornice entro la quale si svolge la vita di milioni di persone nel mondo. Il suo messaggio, che ha contribuito al suo successo dalla predicazione di Maometto, non ha perso forza nel corso dei secoli. Si è articolato in molte declinazioni, sfumature, luoghi. Dal Maghreb a tutto il Medio Oriente, dall’Iran sciita all’Asia Centrale, dall’India al sud est asiatico, fino all’Africa subsahariana.

Sulla sponda sud del Sahara, l’Islam è arrivato alle masse nella maggior parte attraverso la forma della confraternita (tariqa). In Senegal ve ne sono attualmente quattro: la Qadiriyya, la Tidianiya, i Layennes, e la più recente, la Muridiya. Fu fondata da Cheikh Ahmadou Bamba, vissuto durante i primi tempi della colonizzazione francese nell’area dell’attuale Senegal, e fu uno degli oppositori più efficaci del potere coloniale. Mistico, studioso di scienze coraniche (tafsir), asceta, esule, resistente, è fonte d’ispirazione non solo per i suoi fedeli ma per tutti i senegalesi. In un paese come il Senegal, dove l’ “assimilation”, il modo francese di avocare a sé le menti e i corpi del colonizzati, è stato particolarmente virulento, l’identità muride non si è fatta e non si fa colonizzare. Un fatto particolarmente evidente a Touba, la città santa gestita e amministrata dai marabutti (serigne), uno “stato nello stato”, un fenomeno peculiare che in Senegal ha impedito la formazione di dittature forti e durature come in altri stati limitrofi. Molti studi in merito sono schiacciati sul ruolo della monocoltura dell’arachide, un aspetto molto importante sia della politica economica coloniale che nella storia della Muridiya, ma non è l’unico degno di nota.

Gli Europei, in numero molto esiguo, si insediarono sulle coste dell’Africa dal XV secolo. Da quel momento portoghesi, olandesi, inglesi e spagnoli puntellarono le coste e le foci dei grandi fiumi di basi commerciali e fortini. Fino ad allora, africani ed europei si trovavano in una situazione di sostianziale parità, seppur con la discriminante che l’africano era un “barbaro”, un pagano, privo della luce della Rivelazione cristiana. Nel corso del Seicento, però, l’africano acquisi’ valore in quanto forza lavoro. L’espansione delle piantagioni nel Centro e Sud America necessitavano di lavoratori adatti, dopo che le feroci conquiste portoghesi e spagnole avevano decimato la popolazione locale. Nel Settecento, la tratta atlantica che riforniva le piantagioni americane di schiavi era a pieno regime, e fu allora che, in concomitanza con l’affermarsi del nazionalismo e del positivismo in Europa, il nero prese l’ultimo posto nella gerarchia delle “razze” umane, proposta in molte forme da vari accademici europei.

In quanto inferiore, l’africano non ha dunque raggiunto lo stadio di “civiltà” che si confà all’uomo: è necessario procedere, allora, a una missione “civilizzatrice”. Le istituzioni liberali, il progresso tecnico e scientifico, la democrazia e la forma statale erano ciò a cui tutti, volenti e nolenti, avrebbero dovuto arrivare.

Sarà questo nazionalismo razzista la giustificazione ideologica di cui il capitalismo in espansione aveva bisogno. Servivano spazi, materie prime, mercati, forza lavoro salariata. Si procedette cosi’ all’occupazione del suolo africano, al saccheggio delle sue risorse e allo sfruttamento dei suoi uomini, in varie forme e modalità. Chi non avrebbe aderito sarebbe stato ucciso, represso, scavalcato.

In Francia, questa ideologia non lasciava alcuno spazio di autonomia culturale agli africani. La Repubblica francese è unica e indivisibile, e alla sua cultura i sudditi dovevano aderire completamente, se volevano essere trattati e considerati da pari.

In questa temperie si inserisce la storia di Cheikh Ahmadou Bamba. E’ una storia in cui un mistico islamico, fino alla fine mai interessato alle vicende terrene, ha finito per rappresentare una valida opposizione ai colonizzatori francesi. La Francia, con la sua missione “civilizzatrice” in Africa, fardello dell’Occidente, voleva sia le risorse materiali che gli spiriti e i cuori degli africani. Una politica di acculturazione e di alienazione culturale: fu per combattere quest’alienazione che il fondatore del muridismo ha consacrato i suoi sforzi, e lo fece attraverso la sua fede, quella islamica.

al-Quran

L’ISLAM E LA TASAWWUF

Si può affermare che l’Islam nasce quanto Muhammad, nel 610 d.C. circa, durante un ritiro spirituale nei dintorni della Mecca, ebbe la prima rivelazione. Un angelo, Gabriele, gli fece ascoltare:

“Leggi! Nel Nome del tuo Signore che ha creato! Che ha creato l’essere umano da un grumo. Leggi! Poichè il tuo Signore, il Nobilissimo, ha istruito tramite il Calamo e ha insegnato all’essere umano ciò che ignorava” (Corano 96,1-5)

E’ la Notte del Decreto, che tutti i musulmani commemorano il ventisettesimo giorno di ramadan, quando la Parola Divina discese su Muhammad:

“Si, noi l’abbiamo fatto scendere la Notte del Decreto. Come potresti sapere cos’è la Notte del Decreto? La Notte del Decreto è migliore di mille mesi! In essa discendono gli Angeli e lo Spirito col permesso del Signore per Sua decisione. Pace fino al sorgere dell’aurora!” (97, 1-5)

Esiste un Dio, e solo uno, origine e fine della creazione e della vita umana, che si è rivelato gradualmente tramite alcuni profeti (Abramo, Mosè, Gesù). La pienezza di questa rivelazione, però, si avrà solo con Muhammad, ultimo dei Profeti. Nel monoteismo assoluto (tawhid) sta il mistero divino: Dio si rivela ma non si fa conoscere, velato dalla molteplicità, dal mistero e della mutevolezza del mondo.

Altre importanti rivelazioni seguirono, che formeranno, sura dopo sura, il Corano (al-Quran, ovvero “recitare salmodiando”). Dettato a Muhammand direttamente da Allah, il Corano è lettera divina, scritto e memorizzato in arabo, lingua sacra e sublime.

“Questo Corano non è stato assolutamente fatto di fuor da Dio, ma è la conferma di ciò che esisteva prima di esso e una esposizione dettagliata del Libro nel quale non v’è dubbio, venuto dal Signore dei mondi” (10,37)

La prima sura, l’Aprente (al-Fatiha), posta all’inizio, viene recitata in ogni preghiera, cinque volte al giorno, ed è la struttura portante della spiritualità islamica:

“Nel nome di Dio, Misericordioso, Misericorde. Lode a Dio, Signore dei Mondi, Misericordioso, Misericorde. Sovrano del Giorno della retribuzione. Te adoriamo, Te invochiamo. Guidaci sulla retta Via; la Via di queli che hai beneficiato, non di quelli che sono nella [Tua] collera, né di quelli che si sviano” (1, 1-7)

Dalla fatidica Notte del Decreto e fino alla sua morte, Muhammad continuò a ricevere rivelazioni, a trasmetterle ai suoi compagni, a lottare per affermare il messaggio divino nella società politeista in cui era nato. Negli anni tra la sua nascita nel 570 d.C circa, fino alla morte nel 632 d.C, vengono fissati i pilastri dell’Islam e rivelato il Corano. La sovrastruttura fondamentale entro la quale milioni di fedeli nel mondo si riconobbero e si riconoscono tuttora è rimasta invariata da allora.

Tuttavia, molto restava ancora da fare. Interpretare e commentare il Corano, innanzitutto. E’ l’operazione chiamata tafsir, lo studio e la meditazione sulla parola divina. L’Islam, appena dopo la sua nascita e durante i secoli successivi ha vissuto secoli fecondi di elaborazione e sistemazione teorica. Gli elementi principali furono la definitiva codificazione del Corano, la fomazione delle scuole giuridiche, l’elaborazione della dogmatica e, infine, la ricerca della dimensione più interiore e spirituale del messaggio coranico. Quest’ultima è l’aspetto principale del sufismo (tasawwuf, professare di essere sufi): la ricerca del contatto divino, al di là delle pratiche esteriori del culto, e la conseguente beatitudine spirituale che ne deriva, che viene cercata dai sufi a partire delle fonti primarie dell’Islam, il Corano e i Detti del Profeta (hadith).

Il messaggio coranico è estremamente elastico e spesso contradditorio. Morto il Profeta, tutti i suoi aspetti teorici e pratici come le questioni relative al diritto, le speculazione teologica vera e propria e la spiritualità erano affrontate assieme. Le differenze tra scuole giuridiche emergeranno in seguito, e la grande scissione tra sciiti e sunniti (firqa) si allargherà gradualmente fino a farsi insanabile. E’ nel IX secolo che iniziano a comparire le prime opere e i primi autori ascrivibili alla tasawwuf, e con loro i suoi aspetti principali: abbandono ad Allah, distacco dal mondo, amore spirituale.

Un nodo importante della pratica sufi è il rapporto esclusivo dell’allievo (l’aspirante, murid) con il maestro (cheikh, direttore spirituale) il quale rappresenta l’uomo perfetto, dove si è manifestata la piena realizzazione interiore, colui che possiede il segreto della rivelazione coranica. A ciò vanno aggiunti alcuni esercizi spirituali, come il dhikr, ovvero il “menzionare”: ricordare il nome di Allah, per ritrovarlo dentro di sé. Un esercizio che cambia a seconda della confraternita e che viene trasmesso in via orale dallo cheikh, l’ultimo anello di una catena che risale a Muhammad, fino al murid.

Il nodo dell’insegnamento sufi è, data la sua natura, esoterico. A partire dal XII secolo, iniziano a vedere la luce le prime differenziazioni tra confraternite, turuq, ovvero “vie”: si tratterà di ordini strutturati, gerarchici, che prenderanno forme diversissime e si diffonderanno in tutta la comunità (umma) islamica, che ne sarà enormemente arricchita. In Africa subshariana, l’islamizzazione per i convertiti ha coinciso nella quasi totalità dei casi nell’ingresso in una tariqa: molte si sono distinte per potenza, capacità organizzative e militari. Nel Maghreb e nel Sahel (da sahil, ovvero sponda, riva del deserto), durante le invasioni coloniali del XIX secolo, fu l’Islam delle turuq a mettere in atto i primi episodi di resistenza alla colonizzazione europea. Si pensi al jihad (lett., “sforzo”,) di al-Haji Omar, promotore della Tidianiya, le lotte contro i colonizzatori italiani della Sanussiya in Cirenaica, e l’epopea del mahdismo contro gli inglesi in Sudan.

IL SENEGAL

Il Senegal è un paese a larga maggioranza musulmana. L’Islam vi è penetrato da nord, tramite gli arabi e gli amazighen (comunemente noti in Europa come berberi), per il controllo delle vie carovaniere.

L’islamizzazione in tutta l’Africa Occidentale è consistente dal XI secolo; si danno imperi con elitè musulmane e sudditi animisti. Il sufismo si diffonde capilllarmente, anche se non scompaiono le religioni animiste. L’adesione all’islam avviene di solito per intere comunità, che fanno il loro ingresso in una tariqa: le turuq, per loro natura, favorivano la partecipazione dei loro membri e fornivano sostegno ai loro aderenti; saranno i maestri sufi, con alle spalle il consenso dei fedeli e un notevole potere politico, a chiamare per il jihad contro l’invasore.

Il Senegal è oggetto di spinte di popolazioni amazighen da nord, provenienti dall’attuale Marocco e Mauritania, fin dal X secolo. Quella che partiva dal Marocco fino al corso del basso Senegal fu una delle più frequentate piste commerciali sahariane, che contribuirono alla circolazione dell’Islam, di merci e di persone. Gli amazighen Maqzara sono gli antenati dei Wolof, dei Serere, dei Tuculor: sono questi i maggioritari gruppi sociali e linguistici del paese. Uno dei primi regni conosciuti è il Tekrur, il cui sovrano War Dyabi Ndiaye si converti’ all’Islam già nel X secolo.

Fu nello stesso periodo che alcuni berberi sanhaja, islamici più per motivi politici che per fede, videro arrivare Abd Allah ibn Yasin, dotto musulmano, giunto per insegnare l’ortodossia. Poco per volta, Ibn Yasin formò attorno a sé una buona rete di discepoli, poi chiamati al-Murabetun, ossia quelli del ribat, gli Almoravidi. E’ da qui che nasce l’abitudine di chiamare marabutti i capi religiosi musulmani in Africa Occidentale e nel Sahel; è probabile che ribat stia ad indicare il punto di raduno dal quale i primi Almoravidi sferrarono i fortunati jihad verso tutte le direzioni, che ne fecero una delle dinastie più potenti del Maghreb, che sanci’ l’affermarsi definitivo del sunnismo in tutta l’area.

Fino al XVI secolo, nel territorio senegalese si succederanno regni più o meno grandi, imperi leggendari come il Mali e il Ghana, e continueranno ad affluire le ricchezze provenienti dai commerci sahariani.

Ma con l’arrivo di portoghesi, olandesi, francesi e inglesi sulla costa, comincerà il commercio di uomini destinati alle piantagioni coloniali delle Americhe. I francesi occuparono l’isola di Saint Louis nel 1659, e nel 1677 tolsero dalle mani olandesi l’isola di Goreè. Schiavi, gomma, avorio, pelli le merci più ricercate che affluivano alla costa dall’interno, dove vi erano i cosidetti regni Wolof: il Walo, il Cayor, il Baol, il Sine-Salum, il Dimai. Erano società schiavistiche, al cui vertice vi erano ceti nobiliari e il sovrano (damel); le loro vicende e i loro rapporti reciproci sono poco conosciuti. Di certo, la tratta atlantica di uomini e merci rafforzò le loro aristocrazie, che commerciarono con gli europei stanziati sulla costa.

Alle soglie dell’arrivo dei francesi nell’area del fiume Senegal, vi sono due principali turuq nell’area: la Qadiriya e la Tidianiya. La prima fu fondata in Iraq nel XII secolo dal persiano Abd al-Qadir al-Gilani; è tuttora una delle più numerose al mondo, ed ebbe straordinaria diffusione in Africa. La seconda invece nacque in Marocco nel 1781, per opera di Ahmad ibn al-Mukhtar al-Tijani.

Uno dei primi a prendere le armi contro la Francia fu al-Hadi Omar. Nato nel 1797, fece il pellegrinaggio alla Mecca ed entrò a far parte della tariqa Tidianiya, convinto che fosse l’Islam la chiave per stabilizzare politicamente una zona molto provata dal commercio di schiavi. Ma i francesi erano ormai ben insediati in Senegal, ormai costellato di fortini e affidato a Faidherbe, nominato governatore nel 1854, che infatti lo respinsero e lo costrinsero a rinunciarci. Al-Hadi riuscirà tuttavia a creare un vasto predomimio nel territorio attorno al fiume Niger, che non riuscirà però a sopravvivere alla sua morte.

Intanto, nel 1862, Lat Dyor Diop diventò damel del Cayor. Nato in ambiente animista, fini’ tuttavia per militare nell’esercito del marabutto Ma Ba, rappresentante di al-Hadi Omar nel Gambia, dopo essere stato sconfitto e sostituito da Ma Dyodyo alla testa del Cayor. Lat Dyor si converti’, mentre sia gli inglesi e i francesi erano sempre più impensieriti dal crescente potere di Ma Ba, che però mori’ combattendo contro i Serere. Sprovvisto di protezione, Lat Dyor fece atto di sottomissione ai francesi, salvo poi riprendere le ostilità fino al 1871, quando lo riconobbero sovrano del Cayor. Nel 1879, l’autorità coloniale decise di costruire la ferrovia Dakar-Saint Louis, che sarebbe passata proprio nel suo regno: la guerra riprese tra varie vicende fino alla morte in battaglia di Lat Dyor, nel 1886.

Il potere coloniale francese perse un grande oppositore, e si consolidò. Come tutte le altre colonie, il Senegal servi’ da serbatoio di materie prime, senza investimenti che non fossero destinati alla madrepatria e alle sue compagnie commerciali. Politicamente era retto da governatori, comandanti di zona, capi locali cooptati nell’amministrazione coloniale. La disfatta dei regni wolof creò un vuoto di potere, colmato dal potere marabuttico, i soli che potessero garantire protezione alla popolazione. Molti di loro collaborarono con i francesi, mediando tra loro e i senegalesi. Altri resistettero alla missione “civilizzatrice” della Francia: l’opposizione e la resistenza non cessarono mai veramente. In ogni caso, l’ordine sociale era stato distrutto dalla penetrazione coloniale, e i marabutti lo ricostruirono, sia in collaborazione che in contrasto con le autorità coloniali. Le lotte di resistenza armate si erano rivelate inefficaci di fronte alla superiorità tecnica e militare del nemico. Cheikh Ahmadou Bamba, figlio di un marabutto alle dipendenze di Lat Dyor, non scelse la via delle armi, ma quella della fede e della resistenza.

CHEIKH AHMADOU BAMBA

Cheikh Ahmadou Bamba

L’unica immagine rimasta di Cheikh Ahmadou Bamba, alias Serigne Touba, è riprodotta ovunque in Senegal. E’ la foto di un uomo in piedi, con una tunica e un turbante bianco: di lui si vedono solo gli occhi, evocativi, enigmatici, penetranti. La sua storia è del tutto peculiare, e si inscrive in quella più ampia delle numerose articolazioni della resistenza passiva degli africani alla colonizzazione. Il suo modo di agire era del tutto incomprensibile per i francesi dell’epoca: Cheikh Ahmadou Bamba era un mistico a tutto tondo, mai interessato al potere né al denaro. Non era possibile comprarlo, corromperlo, convincerlo. I due esili, le vessazioni, i regimi di sorveglianza non ebbero mai alcun effetto su di lui, che continuò fino alla morte a pregare, a comporre poemi, a dedicarsi alle scienze coraniche, attirando su di sé un numero crescente di discepoli (talibè). Non-violento dall’inizio alla fine, lucido, imperturbabile, carismatico: la sua grandezza d’animo travalica i confini della sua tariqa e della umma islamica.

Per i muridi, di allora come oggi, è una storia costellata di miracoli e caratterizzata dalla costante presenza divina; i francesi furono mero strumento di Dio, unica vera causa degli accadimenti della vita del Cheikh. E’ una storia fatta di fonti orali e autoctone, nonché di quelle che Cheikh Ahmadou Bamba scrisse di suo pugno.

Nasce nel 1853 a Mbackè, villaggio fondato da suo nonno, nel Baol. Era figlio di Mame Mor Anta Saly, marabutto, e di Sokhna Diarra Bousso. Suo padre era consigliere alla corte di Lat Dior. Fin dall’adolecenza, studiò teologia, il tafsir, il diritto islamico, la grammatica, la retorica. Il carattere meditativo e imperturbabile era già evidente allora: il tempo passato in solitudine e silenzio faceva interrogare molti sul suo stato mentale: qualcuno lo chiamava “il matto di Mame Mor Anta Saly”.

Morto suo padre, era ormai chiaro che la via che aveva scelto era quella del misticismo, e non avrebbe frequentato la corte reale del Cayor: era un oppositore del potere monarchico e della forma gerarchizzata che dava alla società.

“Non ho l’abitudine di frequentare i re. Non alcuna ambizione per le loro ricchezze, e non ricerco l’onore se non presso il Signore Supremo. Mi vergognerei se gli angeli mi vedessero da un altro re”

In questo periodo della sua vita, errò per il Senegal e la Mauritania continuando a studiare le scienze islamiche, seguendo proficuamente la via dei maestri della Qadiriya.

Bruciò le tappe del percorso prescritto dai marabutti qadiri, e ben presto in molti affluirono presso la sua abitazione. Cominciò ad avere i primi detrattori, ma la creazione di una nuova “via”, una nuova tariqa, era prossima:

“chiunque sia in armonia con Dio non deve preoccuparsi dei suoi detrattori e di essere in disaccordo con gli uomini. Ho la via migliore”.

Una via che prevede l’imitazione del Profeta (Khidmah) e dei suoi Compagni, l’esclusione di qualsiasi atto di violenza anche verso la più piccola creatura, la giustizia come base dell’armonia sociale, la tolleranza, la generosità.

Furono in molti ad essere d’accordo: resistenti sconfitti, oppressi, contadini espropriati, guerrieri orfani dei loro damel, tutti aspiravano a diventare talibè. La società e le sue strutture erano ormai collassate, milizie sbandate commettevano razzie, e non vi era nessun leader in grado di sostituire quelli morti e sconfitti; in molti fecero atto di sottomissione al Serigne.

Fu facile pensare per i francesi che si fosse, in potenza, davanti a una riedizione dei jihad anticoloniali messi in atto dall’Africa Occidentale al Sudan. Molti studiosi occidentali ipotizzano ancora che, se ci fossero state le condizioni, uno scontro armato tra il Cheikh, i suoi discepoli e i coloni francesi avrebbe potuto avere luogo.

Al di là del fatto che all’epoca la conquista francese era consolidata, è una visione che ignora del tutto sia il lato mistico di Serigne Touba, totalizzante nella sua personalità, sia il suo rifiuto categorico di ogni ricorso alla violenza, ribadito moltissime volte nel corso della sua vita.

Nel mentre che in molti sceglievano di giurare fedeltà a Cheikh Ahmadou Bamba, in lui si faceva strada l’idea della fondazione di una nuova città, che avvenne nel 1888. Passeggiava a lungo in cerca del sito adatto, tra i villaggi di Darou Khoudoss e Darou Miname. Sentiva la necessità di un luogo santo dove esercitare la nuova via appena nata, basata sulle scienze coraniche, la purificazione dell’anima e il lavoro come pratica cultuale.

Il nome, tuuba, compare nel Corano:

“Quelli che credono e compiono opera buona avranno il più gran bene (tuuba) ed il miglior ritorno” (13,29)

La moschea di Touba

Dalla scelta del nome, è chiaro l’intento di farne una sorta di porta del paradiso per i credenti. Tuuba è anche il nome dell’Albero del Paradiso nell’opera Al-Musnad, del giureconsulto musulmano Ibn Hanbal, fondatore della scuola giuridica hanbalita, morto a Baghdad nel 855 d.C. Nell’opera, viene chiesto al Profeta “che cos’è tuuba?”, e lui rispose “un albero in giardino. Il lasso di tempo per attraversarlo è di cento anni. E’ l’abito della gente nel giardino paradisiaco, che vengono dall’apertura dei suoi frutti”.

Il luogo designato era brullo e povero d’acqua, un luogo dove risiedere richiedeva l’assoluto distacco dal mondo e dagli uomini, come ebbe a dire Serigne Touba stesso:

“Non sono venuto per seguire le orme di un antenato, né per cercare un sito favorevole alla cultura, né per scoprire un pascolo. Ma solo per adorare Dio l’Uno, con la sua autorizzazione e approvazione”

Nel suo poema Matlab al-Fawzayn, stabili’ le regole di condotta da seguire a Touba: l’aspirazione permanente verso Dio, la ricerca del sapere, la carità, la sincerità, la pietà e il timore verso Dio.

L’anno dopo, nel 1889, Serigne Touba vedeva aumentare ogni giorno il numero dei suoi talibè. Questi rassembramenti inquietavano i francesi e tormentavano le notti dell’amministrazione coloniale, convinta che nutrisse ambizioni temporali, come rimpiazzare i re wolof caduti. Fu redatto il primo rapporto dell’autorità coloniale sulle sue attività, a cui segui’ un regime di stretta sorveglianza, a cui contribuirono i marabutti collaborazionisti dell’epoca. Non che la cosa preoccupò mai il Cheikh, completamente preso nel suo percorso pienamente votato al misticismo:

“il Signore, verità evidente, mi ha donato ciò che viene rivelato ai pii e quello che è rivelato esclusivamente a me, in onori e favori divini”

“voi mi avete deportato presumendo che io sia un adoratore del Signore, e un jihadista. Avete di certo ragione, perché conduco la jihad per amore di Dio. Ma la mia jihad si fa attraverso le scienze e la pietà, in quanto schiavo di Dio e servitore del suo Profeta; e Allah, che tutto regge, ne è testimone. Se i miei nemici possiedono delle armi per le quali sono temuti, le mie sono il Corano e gli hadith del Profeta (la Pace sia su di Lui), ed è cosi’ che conduco la jihad

Si avvicinava, intanto, il momento in cui sarebbe stato convocato dall’autorità coloniale a Saint-Louis. Fu un evento cruciale, ed è importante sottolineare che per Cheikh Ahmadou Bamba, i suoi discepoli e per tutti i muridi, ha cause metafisiche: l’esilio, la deportazione e le prove a cui sarà sottoposto sono considerate parte di un disegno divino. Come ebbe a scrivere lui stesso,

“la causa della mia deportazione è Dio, che voleva donarmi un destino prodigioso e il potere di intercedere il giorno della resurrezione in favore del mio popolo, e fare di me il Servitore del Profeta”

L’inizio di queste prove è ricordato durante il Gran Magal, un pellegrinaggio verso Touba a cui partecipano milioni di fedeli ogni anno.

Convocato dal Governatore del Senegal Mouttet, accusato di fomentare la rivolta contro le autorità, rifiutò di presentarsi: tramite suo fratello Mame Thierno Ibra Faty, rispose che

“il Signore dei mondi mi ha ordinato di proclamare che sono un rifugio, un asilo. Chiunque voglia la felicità in questo mondo o nell’altro deve cercare riparo presso di me”

Fu una risposta considerata oltraggiosa, e andarono a prelevarlo con un esercito, a Jewol, il 10 agosto 1895. Il processo fu fissato per il 5 settembre 1895, a Saint Louis.

Cheikh Ahmadou Bamba si difese da tutte le accuse e vergò il documento che gli venne sottoposto con l’al-Hikhlas, la sura del Corano che enuncià l’assoluta unicità divina (tawhid), e pregò davanti alla corte.

Il 19 settembre fu portato a Dakar, da dove avrebbe preso il battello che lo avrebbe portato in esilio in Gabon, in piena fascia equatoriale. Era infatti un’abitudine dei colonizzatori francesi esiliare uomini abituati alla praterie del Sahel in foreste in cui pochi sopravvivevano, tra la malaria e un clima ostile. Quella era la loro speranza anche in questo caso.

Invece, i lunghi anni passati in Gabon furono molto prolifici. Cheikh Ahamadou Bamba scrisse molto, pregò e sopravvisse. Vengono chiamati gli anni “marittimi”. Come ebbe a scrivere,

“durante l’esilio, la mia conoscenza gnostica si è accresciuta, il mio arrivo presso Dio è stato confermato, la mia sicurezza ha raggiunto nuovi stadi e ho ottenuto Grazie Infinite”.

E ancora:

“Mi sono intrattenuto con Dio durante questi anni, attraverso degli scritti che non possono né potranno mai essere divulgati, perché sono dei segreti profondi che non cesseranno di essere confermati”

Nel frattempo, in Senegal, la confraternita muride si compattava grazie soprattutto all’infaticabile Cheikh Ibrahima Fall, discepolo della prima ora. Nato nel 1858 à Ndiaby Fall, Cheikh Ibrahima Fall discendeva da una nobile famiglia del regno del Cayor, ed è chiamato ancora dai suoi discepoli Baboul Mouridin, “la porta del muridismo”. I pilastri della sua vita furono la sottomissione a Dio, al suo marabutto Cheikh Ahmadou Bamba, e il culto del lavoro produttivo, considerato una sorta di preghiera. Fu un sogno rivelatore a indirizzarlo verso il suo marabutto, che incontrerà a Taiba Ndakhar. Li’, gli giurerà fedeltà abbandonando e rinunciando a tutto ciò che aveva. La sua perspicacia gli varrà il soprannome Lampe Fall, la lampada: cosi’ si chiama uno dei minareti della moschea di Touba. I suoi discepoli, detti Baye Fall, contribuirono in gran numero alla costruzione della moschea. Il loro motto è “lavoro, quindi prego”.

Cheikh Ibrahima Fall

Fu lui, a Saint-Louis, a convincere le autorità francesi dell’innocenza del suo maestro; fu cosi’ concesso a Serigne Touba di rientrare in Senegal l’11 novembre del 1902. Nel paese regnava la massima euforia, e attirava folle di persone ovunque andasse.

Il suo seguito non accennava a diminuire, e fu cosi’ che inziarono a circolare voci di un presunto prossimo sollevamento armato contro i coloni del marabutto e i suoi talibè. Convocato dal comandate di zona di Thies, rispose che

“sono prigioniero di Dio, non riconosco altro che Lui e a Lui solo rendo omaggio”

Seguirono altre convocazioni, e altri rifiuti. Nel giugno del 1903, allora, fu mandato a Mbackè un distaccamento di 150 tiratori e altri cinquanta soldati a prelevarlo. I talibè avrebbero voluto dare una risposta armata; Cheikh Ahmadou Bamba preferi’ consegnarsi ed evitare un possibile massacro. Poco dopo, fu mandato in esilio in Mauritania, presso il marabutto Cheikh Sidya.

I clan amazighen, gli ulema mauritani, i pellegrini venuti dal Senegal si affollavano attorno a lui. Fu una rivoluzione psicologica: per gli islamici di pelle nera, erano i Mauri a possedere i segreti della religione e del misticismo. Durante quegli anni invece, la cosa si ribaltò: erano le prime crepe di una sudditanza psicologica che sarebbe finita presto.

Fu nel 1907 che fu concesso a Cheikh Ahamadou Bamba di fare ritorno in Senegal, sempre sotto stretta sorveglianza, nel paese di Thiéyène, dove passerà quattro anni, prima di fare ritorno a Diourbel. Qui, il comandante di zona Antoine Lasselves, fece la sua conoscenza. Fu su suo sollecito che le relazioni tra il Cheikh e l’autorità coloniale francese si distesero, dopo essersi convinti che non avrebbe fatto altro che pregare e insegnare ai suoi talibè. Nel suo rapporto, Lasselves chiede espressamente ai suoi superiori di lasciare in pace il marabutto, che non aveva alcuna ambizione politica, ma era tutto preso dai suoi studi e dai suoi libri, che possedeva in gran quantità. Insegnava all’aperto, facendo schemi con le dita sulla sabbia, passeggiava a lungo, mangiava poco, e regalava tutto ciò che gli veniva donato.

Fu nominato membro del Comitato Consultivo degli Affari Musulmani dell’Africa Occidentale Francese, ma non si presentò mai; cosi’ come non indossò mai la Legion d’Onore che gli fu concessa.

Gli fu concesso inoltre di iniziare i lavori per la costruzione della moschea di Touba, una delle sue grandi aspirazioni.

Mori’ il 19 luglio 1927, a 75 anni.

MASAALALIKUL JINAAN

La moschea Masaalalikul Jinaan

La tariqa Muridiya fu presa in mano da suo figlio, Serigne Mouhammadou Moustapha Mbacké, il quale avviò in pianta stabile la coltivazione dell’arachide, per autofinanziare la vita della confraternita e iniziare i lavori di costruzione della moschea di Touba. Allora come oggi, la gerarchia muride agi’ come filtro tra il potere temporale e i suoi discepoli; arachidi per la madrepatria Francia in cambio della possibilità di autogovernarsi. Uno schema che si ripete anche dopo la fine della dominazione coloniale nei confronti del neonato stato senegalese. La moschea fu portata a termine il 7 giugno 1963, durante il califfato di un altro figlio di Cheikh Ahmadou Bamba, Serigne Fallou Mbacké, che la inaugurò dirigendovi la prima preghiera, a cui assistette l’allora presidente del Senegal Leopold Sedar Senghor. E’ la moschea a fare la città, non il contrario. Il minareto Lampe Fall, alto più di ottanta metri, è visibile a decine di chilometri. La città che si sarebbe sviluppata intorno è arrivata, oggi, a sfiorare il milione di abitanti.

E’ un territorio autonomo, in cui le forze dell’ordine dello stato non hanno potere di intervenire; l’ampio potere di mobilitazione dei serigne della forza lavoro dei talibè, ripagati in protezione, doni e servizi, ha fatto crescere esponenzialmente la città, la confraternita, e indirettamente l’intero paese.

Il califfo generale, scelto tra i discendenti di Serigne Touba, è al vertice. Questi discendenti sono portatori della baraka (benedizione, grazia divina) ereditaria, cioè appartengono alla famiglia Mbackè. Il legame tra i serigne e i loro discepoli, però, non è granitico e scontato: va rinnovato e mantenuto in tutte e due le direzioni. I discepoli di un dato serigne sono inquadrati nelle daara, una sorta di scuola coranica in cui sono previste anche il lavoro e le occasioni di svago.

Dopo l’indipendenza dalla Francia, ottenuta nel 1960 , il Senegal è diventato, decennio dopo decennio, uno dei paesi più stabili ed economicamente dinamici nel continente africano.

A differenza di altri stati africani, i presidenti che si sono succeduti non hanno mai consolidato attorno a sé vasti strati di clientele e poteri illimitati, anche perché le turuq, quella muride in particolar modo, sono un forte contrappeso al potere statale.

La leggittimità che i serigne hanno acquisito agli occhi della popolazione deriva dalla potenza economica che hanno acquisito, e con la quale sopperiscono alle gravi carenze dello stato senegalese, in particolar modo nel campo del welfare; una ricchezza ottenuta dall’abilità di diversificare gli investimenti una volta che la spinta della coltura dell’arachide si è esaurita.

Da ciò deriva anche l’ampio potere contrattuale dei marabutti in campo politico, il cui appoggio è necessario a qualunque uomo politico che voglia credito e visibilità nei confronti dei suoi cittadini. Dall’altro lato, la credibilità dei marabutti viene mantenuta tenendosi a debita distanza dalla politica; le aperte prese di posizione per un partito o un politico possono portare alla perdita di talibè e alla loro aperta disobbedienza, cosa che accade frequentemente.

L’immigrazione all’estero di tanti muridi senegalesi ha fatto della Muridiya una tariqa transnazionale; frequenti sono i viaggi dei serigne nelle daara in Europa e negli USA, per cementare lo spirito comunitario.

Il largo uso dei social media diffonde capillarmente aneddoti su Serigne Touba, annunci del Califfo Generale, notizie, articoli. La Muridiya, insomma, è più vitale che mai; nulla lo dimostra come la costruzione dell’imponente moschea Massalikoul Djinane, dal nome dell’opera di Serigne Touba “I sentieri del paradiso”.

Inaugurata il 26 settembre 2019, interamente autofinanziata, è stata una giornata che ha visto la partecipazione di tutti, cristiani compresi; che ha visto storici rivali politici come l’attuale presidente Macky Sall e il suo precedessore Abdolaye Wade riconciliarsi, e discepoli di ogni tariqa pregare assieme.

La Muridiya e l’Islam delle confraternite, dunque, sono più che mai vivi e vitali in Senegal, e hanno finora impedito, insieme a altri fattori, la proliferazione del terrorismo nato da una visione politica dell’Islam, imbevuto di fanatismo e violenza, giustificati da una distorta visione del jihad. L’impostazione non-violenta fortemente voluta da Cheikh Ahmadou Bamba ha, ancora oggi, molto da dire.

Bibliografia

Giovanni Filoramo (a cura di), Islam, Bari, Laterza, 2007

Biancamaria Scarcia Amoretti, Il mondo musulmano, Carocci Editore, Urbino, 2001

Gabriele Mandel (a cura di), Il Corano, UTET, Milano, 2016

Joseph Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera, Ghibli, Milano, 2016

Moustapha Samb, Cheikhoul Khadim et les autorités coloniales: la résistance par la fois, Presses Universitaires de Dakar, Dakar, 2018

10cric

Una replica a “SERIGNE TOUBA E LA RESISTENZA PASSIVA”

  1. […] muride è venuta a conoscenza dell’esistenza di quattro fotografie. In tutte sembra esserci Cheikh Ahmadou Bamba, il fondatore della confraternita Muridiya, del quale è conosciuta un’unica, iconica, […]

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